I film di questa sezione sono:
AUTOETNOGRAFIA
di Iván Reina Ortiz
Colombia - 2021 - 16 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: inglese)
CAMILO TORRES RESTREPO, EL AMOR EFICAZ
di Marta Rodríguez, Fernando Restrepo
Colombia - 2022 - 71 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: inglese)
EL LADRON DE MASCARAS
di Germán Ruiz Rivadeneira
Colombia - 2021 - 14 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: inglese)
SEMILLAS AL VIENTO
di Mónica Borda Sáenz
Colombia - 2022 - 25 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: italiano)
PASO A PAZO
di Luis Carlos Osorio Páez
Colombia / Italia - 2022 - 28 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: italiano)
ABRIR MONTE
di Maria Rojas Arias
Colombia / Portogallo - 2021 - 25 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: inglese)
NACIMOS BAILANDO
di Juan Diego Puerta López
Italia / Colombia - 2022 - 11 min.
(lingua: italiano)
Omaggio a Ciro Guerra
LA SOMBRA DEL CAMINANTE
di Ciro Guerra
Colombia - 2005 - 89 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: inglese)
LOS VIAJES DEL VIENTO
di Ciro Guerra
Colombia / Argentina / Germania / Olanda - 2009 - 117 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: italiano)
EL ABRAZO DE LA SERPIENTE
di Ciro Guerra
Colombia / Argentina / Venezuela - 2015 - 125 min.
(lingua: spagnolo / sottotitoli: inglese)
SU CIRO GUERRA
Ciro Guerra, un nuovo maestro: il senso incompiuto
Già a metà del primo decennio del XXI secolo, in Colombia i nomi di Rubén Mendoza e di Ciro Guerra iniziavano a risuonare come quelli di due rappresentanti di spicco di una nuova generazione di cineasti che, con il tempo, si sono confermati esponenti di punta del nuovo cinema nazionale sotto la tutela della Legge Cinema, dopo un vuoto di anni in cui Lisandro Duque, Jorge Alí Triana, Víctor Gaviria e Sergio Cabrera erano riusciti ad affermarsi come notevoli avventurieri e, allo stesso tempo, come protagonisti tenuti ai margini, come esuli, del loro stesso cinema. Gli anni Novanta sono stati segnati da una sorta di trance artistica in cui lo Stato ha valorizzato la riflessione sulla necessità del cinema mentre le élite dirigenziali dello Stato prendevano il polso delle nuove realtà audiovisive in Colombia e nel mondo, prima di iniziare ad operare su di esse in base a orientamenti non meno tecnocratici di quanto fossero nazionalisti. Oggi il cinema colombiano si è centralizzato più che mai con l’intenzione di crescere e rendersi ufficiale, di farsi grande. Progetto che, senza ombra di dubbio, è stato portato a termine con successo.
Guerra, il titano lento
Ciro Guerra, proveniente da una provincia della costa, Río de Oro, nel Cesar, ha studiato cinema presso l’Universidad Nacional, ma si ritirò dagli studi per realizzare il suo primo lungometraggio, in video digitale, contando quasi solo sulle proprie forze e assumendosene ogni responsabilità. La ricerca di complici, che fu laboriosa e fatta in virtù di un materiale di lavoro presentabile e crescente, incessante, sortì il risultato desiderato, e La sombra del caminante (Guerra, 2004) cominciò a costruirsi, già prima del debutto, una fama leggendaria per tutto ciò che aveva implicato una sfida del genere. Il film, che fu un disastro al botteghino, venne invece ben accolto nei festival cinematografici, e Guerra, che pensava gli fosse andata più che bene, decise definitivamente di abbandonare gli studi per avviare un nuovo progetto che, alla fine, gli permise di realizzare il film dei suoi sogni. L’uscita de Los viajes del viento (2009) fu accompagnata da una maggiore pubblicità, ebbe un maggior successo di pubblico, anche se minore rispetto a quello che si aspettavano i suoi realizzatori, viaggiò in tutto il mondo, fu generalmente ben recensito e lasciò una grande aspettativa rispetto a quello che sarebbe diventato il successivo folle progetto del regista.
Erano le enormi, per non dire smisurate, ambizioni di Guerra a far nutrire dei dubbi sulla riuscita del nuovo lungometraggio, perché, nonostante il fenomeno dell’epoca, l'esperienza molto impegnativa de Los viajes del viento, in termini principalmente finanziari, bastò a far deragliare completamente, o per un certo periodo, l'ascesa o la continuità della carriera del regista come talento baciato dalla fortuna. La sua idea era quella di continuare a girare una serie dedicata alle regioni della Colombia, come aveva fatto con il lavoro precedente legato alla costa settentrionale del Paese, ma questa volta nell’Amazzonia. La produzione, però, costava quanto due o tre lungometraggi normali. Inoltre, le difficoltà dettate dal girare nella foresta non rendevano giustizia al suo grande sforzo, ma Guerra tornò a contare su molti appoggi e, strategicamente, accanto alla compagna di una vita, la produttrice Cristina Gallego, realizzò un’opera impeccabile che lentamente, dopo un debutto apoteosico a Cannes, destò polemiche e sedusse il pubblico nazionale e internazionale, vinse numerosi premi e riconoscimenti in importanti festival cinematografici e, nel 2015, venne nominato agli Oscar come miglior film straniero.
Tutto questo parla di un titano, ma non ancora di un maestro. Certamente, in artisti come Guerra, le notevoli capacità tecniche rappresentano già un valore oggettivo a livello professionale o, in altre parole, un valore di natura artistica, se non di ordine estetico, se ci esprimiamo in sintonia con concezioni più complete (o realiste) della prassi poetica. Tuttavia, non è sufficiente concludere dei film, anche quando si tratta di lavorare a opere così difficili da portare a termine come quelle che intraprendono Guerra e Gallego. C'è qualcosa di più in questo duo che va considerato con la massima attenzione. E in questo, posso scommetterci, siamo solo all’inizio. L’impeto colossale, unito a un perfezionismo quasi esasperante, ha pervaso l’opera di sottigliezze. Già con quanto realizzato siamo di fronte a un’opera degna di un autore duraturo e singolare, che in un certo senso sta creando un cinema inimitabile e che definiremmo - più che personale - impersonale e trascendente. Ciro Guerra, credo, porta avanti il compito, già compiuto ma forse non concluso, di innalzare la sua opera anteriore. Potremmo iniziare da questo: osservando come il suo ultimo lungometraggio ha elevato il suo cinema anteriore.
Guerra, un autore da tenere d’occhio
Una delle lezioni che ancora dobbiamo imparare, o che non abbiamo imparato del tutto, che ci offre Jorge Luis Borges nel suo racconto fondativo “Pierre Menard, autore del Don Chisciotte”, ha a che vedere con la relatività delle opere d’arte. Se il post strutturalismo ha ereditato in parte questa lezione - che più in là proveremo a enunciare - la sua accezione è pessimista già in partenza per il perpetuo delirio che implica. D’altra parte, una visione storicista delle discipline testuali, come anche altre tendenze, tenderebbe a valutare e a misurare il senso della produzione intellettuale umana senza potersi del tutto sottrarre dalla necessità di collocare storicamente il discorso per rilevare almeno quegli elementi fissi, immutabili e oggettivi su cui non è possibile obiettare. Se mi rifaccio a questo racconto di Borges, è perché ci narra una storia, sebbene ci stia raccontando qualcos’altro. Di per sé, Borges afferma che le opere si trasformano in qualcos'altro in ogni istante e, in effetti, contestualizzandole, si spostano nel tempo: ogni lettura non sarebbe che una falsificazione, una ricreazione. Il massimo dell'oggettività consisterebbe nel rifiuto dell’opera a sottomettersi, ma questa è la sua ricchezza. Quindi, la filmografia di Ciro Guerra ha trovato un nuovo volto con El abrazo de la serpiente (2014), e questo è già immodificabile: è già una pietra miliare.
Quello che poteva sembrare vago e incomprensibile, o, a volte, forzato e ridondante, oggi si afferma come uno stile cerimonioso, pieno di dignità e in fieri, ma ugualmente allusivo e imponente, e non perché perda il suo carattere, per così dire, goffo e vacillante ne La sombra del caminante, o perché smetta di essere abusivo ne Los viajes del viento, ma perché l'ingenuità del primo film e gli eccessi del secondo sono sorprendentemente legate tanto che, in una nuova lettura dei due film, lo spaesamento de Los viajes del viento mostra una sicurezza sbalorditiva, che mi spaventa, e la precedente insicurezza de La sombra del caminante si erge come intuizione profetica. El abrazo de la serpiente è il film che modula e riunisce le dissonanze dei due lavori precedenti, che, in sintesi, erano due poli magnetici, due idiosincrasie arroganti, due doti poetiche. Nessuno può rimanere indifferente, né tanto meno negare, il valore di questi due film, ma solo ora ci svelano in modo nitido il loro intrecciarsi: le metafore, la soggettivizzazione, l’autosufficienza del narratore, la dinamica dei dialoghi sono forze cardine..
Questa presentazione, che era iniziata come un semplice ritratto, sta lentamente diventando uno studio, sommario o a tratti pretenzioso, dedicato al cinema di Ciro Guerra. Mi piacerebbe concentrarmi su El abrazo de la serpiente, ma non credo sia possibile, quindi mi dedicherò separatamente ai suoi tre lungometraggi. L’interesse nei confronti del terzo film del regista, in realtà, accompagnerà tutto il testo, dato che stiamo analizzando l’opera di Guerra alla luce di un nuovo momento che sta dando sfogo alle paure del muto o inconfessabile e represso stupore, provocato dalle sue opere precedenti. Guerra continua a essere, fin dall’inizio, un personaggio controverso, e molte polemiche attorno alla sua figura non dipendono solo dallo scomodo effetto persuasivo che le sue opere hanno su di noi, ma anche per l’effetto che questa sottile e ambigua persuasione esercita su egli stesso, che, passo dopo passo, involontariamente, o forse solo lentamente, vede ratificato un modo unico di essere nel cinema. Una volta vidi El abrazo de la serpiente insieme a mio fratello, Salvador Gallo, e gli dissi che per me Guerra era un nuovo maestro del cinema colombiano, e lui, come d’altronde la maggior parte delle persone, non capì nulla. Solo mi rispose: uovo?
L’allegoria sotterranea
Può sembrare necessaria, e forse risulta anche ingannevole, la revisione che operano certi silenzi e ambiguità come elementi ricorrenti nelle ultime due opere di Guerra per capire che la complessa allegoria de L'ombra del viandante, quell'improbabile amicizia tra una vittima della violenza rurale e il suo aggressore urbano, non è una premessa forzata, non è un trucco o un asso nella manica, ma una formula enunciativa, una visione di fatto, la conclusione di un processo che lascia spazio alla sua comprensione, sia questa reale o illusoria. Forse, per chi non ne tiene conto o non l’ha visto, il modo in cui Ignacio interpreta il messaggio del maestro Guerra (l’altro maestro Guerra) alla fine de Los viajes del viento, o il modo in cui esce di scena Karamacate ne El abrazo de la serpiente, la soluzione finale de La sombra del viandante è inevitabilmente una postura sobria, un'impostura. Tuttavia, a me oggi risulta chiaro che, dall’inizio, l’attrazione che vuole scatenare il film risiede nella convivenza dei due rivali nella città, e la cosa insolita è il fatto che non riusciamo a vederci in altri modi. Fingiamo di essere civilizzati nella città, ma conosciamo e comprendiamo noi stessi solo come nemici.
Non è possibile, e non sarebbe sincero, sostenere che l’allegoria de L’ombra del viandante, quando Mañe e il “silletero” si confessano e scopriamo che quest’ultimo, che è diventato un po’ alla volta amico del primo, è l’assassino della sua famiglia nel sud della Colombia, non è un finale compiacente e facile, ma allo stesso tempo è allettante proporlo, difficile da negare, come se si trattasse di una realtà occulta della nostra società, che se non emerge è per la sconvenienza delle lacrime. E questo accade per due ragioni: per la potenza dei fatti narrati e per le soluzioni formali proposte dal film, chiaramente cifrate nella fabula, nel racconto, che già si presenta dall’inizio come allegorico, simbolico e onirico. Queste due ragioni si sovrappongono, perché la potenza dei fatti narrati è data dalle modalità di rappresentazione stesse. Quando il venditore di sedie cammina per la strada all’inizio, si verifica una soggettivazione che ricorda quella di Karamacate quando si avvicina a Evan, nel finale de El abrazo de la serpiente, spirando dalle nostre narici e non dalle sue. Il venditore di sedie è sopraffatto dalla città, e noi ne percepiamo il caos attraverso i suoi occhi e la sua percezione offuscata.
La sombra del caminante, che si muove tra un video sgangherato e un impossibile cinema in bianco e nero, mostra in modo quasi impercettibile, ma fermo, le torsioni che renderanno il cinema di Guerra un discorso che si ripiega su se stesso. Le varie allucinazioni quando Mañe ed il venditore di sedie bevono l’infuso estratto dalla pianta è il semplice, ma ispirato, sogno di Mañe, con la pioggia che scende dall’alto (elemento che ha richiesto una ripresa molto nitida e in avanti), ci porta ad accettare, bene o male, una logica interna del film altrettanto abissale. Questo elemento non si inserisce bene dentro alle logiche del cinema che è solito consumare il cittadino medio, ma neanche a quelle su cui un critico è abituato a valutare film commerciali e film d’autore. Guerra si muove su entrambi i binari, ma è ben chiaro quale dei due privilegi, ed il simbolo della pianta, che è realtà filmica, eminenza poetica, legame salvifico tra il dolore e la vita, e tra l’aggressore e l’io aggredito, mette i due personaggi come uno spettatore davanti allo specchio. Per questo motivo, nel finale, quando il venditore di sedie si allontana (come Karamacate), libera Mañe con la sua stessa natura, ed è decisamente forte.
La maestosità del silenzio
Una liberazione come quella che vuole La sombra del caminante è problematica, ma nel modo in cui un peccatore, un violatore dell'armonia della vita, nelle parole neutrali della Bhagavad Gita, deve accettare e lasciarsi indietro o trascendere la sua colpa. Questo significa che l’assassino non è solo un assassino oggettivo, ma che nel film opera come una sorta di male cieco, sebbene ritenga inevitabile interpretare il venditore di sedie come una vittima di se stesso, nonostante dobbiamo interpretarlo come un “io” che rappresenta un destino sociale, lontano sia dal volontarismo sia dall’idealizzazione dell’agency sia dall'espiazione di un’eventuale grazia divina o cosmica. Il film è un sogno, e questo non lo dico in termini leggeri. Il cinema funziona così, soprattutto quando si tratta di un film che fa uso di una modalità realista, e impegnarsi in questa logica, invece di andare alle ricerca di un’opera “politicamente perfetta”, ha portato Guerra dal fallimento di pubblico al successo ottenuto con El abrazo de la serpiente. Nel frattempo, il cineasta ha saputo costruire una fabula portentosa, incongruente, ma miracolosamente solida: il cordone ombelicale o il filo di Arianna che unisce l’audacia all'abilità del maestro: Los viajes del viento.
Ora ci terrei a stabilire un rimando tra le lacrime puntuali e solitarie di Mañe con quelle di Fermín, il giovane apprendista del maestro Ignacio ne Los viajes del viento. Voglio sviluppare ulteriormente quest’idea, o la percezione che coltivo io riguardo al fatto che vi sia una concezione del mondo superiore rispetto alla semplice allegoria presente ne La sombra del caminante, e che la nota finale che il maestro Guerra lascia a Ignacio ne Los viajes del viento non è nient'altro che la storia del venditore di sedie e di Mañe: la conferma di qualcosa che non si era notato prima. Noi spettatori non sappiamo cosa dica questa nota del maestro Guerra, ormai defunto, che legge Ignacio, e Ciro Guerra, regista e sceneggiatore del film, ha giurato che non lo avrebbe mai raccontato, ma io so di cosa si tratta. Non dice nulla. E non dice nulla perché neanche il film lo fa. Il silenzio nel quale rimane Ignacio, un silenzio oggettivo, è l’accettazione di una tradizione, e quando inizia a suonare la fisarmonica davanti ai figli del maestro Guerra, Fermin non può che mettersi a piangere, perché ha scoperto qualcosa di inatteso, che non cambia nulla, proprio come Mañe, ma che riesce comunque a dare un senso a tutto. In questo caso, non è altro che un silenzio rassegnato davanti a questa tradizione che, allo stesso tempo, è quella dell’artista di strada, del messaggero.
Los viajes del viento, inoltre, sulla stessa scia, è un'opera totalmente autonoma, que cancella questo artista di strada e che si impone sul suo stesso lirismo, come se il diavolo avese fatto sì che la fisarmonica si suonasse da sola e condannasse gli artisti di strada a vivere quella vita. Apparentemente, come dice Meyo a Fermín, il diavolo è solo un modo di dire quello che la tradizione ha conquistato: l’anima degli artisti di strada. Questi, erranti, compiono il dovere di portare una narrazione a cui non possono essere infedeli, e che si trasmette in una visione dei fatti come se fossero gli stessi, o la loro stessa essenza, il loro stesso spirito. A quel punto, gli artisti di strada sono la stessa realtà raccontata in diverse tonalità, a volte in modo molto laconico, silenzioso, forse. È come il passo di un cavallo triste, di un asinello stanco, di un fardello faticoso sotto al sole, o davanti a una pianura solitaria, di donne che si abbandonano in ogni cittadina, questo è il passo di un vallenato molto diverso rispetto a quello che vorrebbero vendere le case discografiche dagli anni settanta. Ambientato nel 1968, alla nascita del Festival de la Leyenda Vallenata, il film vuole essere l’apoteosi di una cultura, e per questo motivo nega una conclusione.
Il potere dei sogni
Los viajes del viento si chiude nel deserto, davanti a immense pianure appena solcate dalla polvere. Il periplo di Ignacio e del suo apprendista si è svolto in uno scenario nel quale, come nelle favole e nei racconti popolari, i personaggi passano da un’impresa all’altra, e Fermín attraversa con facilità montagne con Ignacio sulle spalle, scala la Sierra Nevada e scende a Manaure e prosegue come in un viaggio delle meraviglie. Tutto ciò infastidisce coloro che intendono seguire il filo di una narrazione dalle tinte realiste, ma non si allontana troppo dal modo in cui il venditore di sedie scappa dalla polizia, ne La sombra del caminante, né dal modo in cui Evan scende dalla montagna verso il fiume dopo aver preso la yakruna, ne El abrazo de la serpiente, in quello stile sintetico, vicino al linguaggio dei fumetti, tipico dell’ellittica narrazione di Griffith, ma anche dell’epica, dell’artificio puro. Guerra torce e ritorce questa affettazione, fa alzare senza parole Ignacio dal tappetino su cui giace convalescente, lo mette a camminare perdendosi come se fosse tra le nuvole e il film diventa, ancora una volta, un sogno a partire dall’imposizione di immagini persuasive per la loro presenza netta (come i sogni).
Ne L’abbraccio del serpente l’illusione si forgia nello stesso modo, e per la stessa ragione ogni ostacolo storico non è altra cosa se non esattamente questa: un inganno, un’ancora referenziale da cui gli stessi protagonisti devono riuscire a liberarsi, e, idealmente, lo spettatore, che sia un critico cinematografico o meno, vale a dire, come dice Luis Alberto Álvarez, sia che si tratti di uno spettatore intensivo o di uno spettatore ordinario, come forse avrebbe detto Virginia Woolf (per analogia con il suo “lettore ordinario”). Ogni enciclopedismo può operare contro questo film, o essere, al contrario, il proficuo cammino che tutti abbiamo percorso in un modo o nell’altro, come la “scrittura del giaguaro”, questo enigma in cui Borges vedrebbe la parola di Dio. Per questa ragione, Evan e Kurtius sono due entità che si emancipano dai loro corrispettivi biografici, come dei doppi, delle immagini oniriche, e per questo la domanda essenziale è se vediamo, se siamo in grado di vedere l'altro. Nel sogno vediamo coscientemente un’immagine di noi stessi, che è l'altro. Non è nemmeno necessario ricorrere a Freud, già la cultura amazzonica e altre culture ancestrali ce l’hanno dimostrato. Dipendiamo dalle nostre facoltà di interpretare il sogno come immagine viva.
In questo modo, El abrazo de la serpiente (e parlo per quelli che l’hanno già visto, senza farne un riassunto) esige che lo si apprezzi in un modo opposto a quello che Pedro Zuluaga o Marta Rodríguez propongono, secondo le loro diverse ma, in un certo senso, molto vicine esigenze di film "politicamente perfetti". Il film è un incontro onirico di principio, cosa che implica un disincontro, un ambiguo passaggio epistemologico. Karamacate opera come una proiezione delle nostre aspirazioni e possibilità, ancora di più per Kurtius e Evan, che al contrario vengono accolti e liberati, nella morte, nella pienezza integratrice, come l’io di uno spettatore addolorato, dissociato nella necessità e nella coscienza. Kurtius ed Evan funzionano e sono, a livello filmico, una trasfigurazione mortale che permette a Karamacate il ritorno a se stesso, la possibilità di essere uno, dissolvendosi nella trasmissione di un sapere. La pertinenza del messaggio non è altro se non quella della vittima, incarnata non nell’indigeno, ma nella terra, nella selva, nel messaggio di un corpo globale, nell’informazione non genetica, ma spirituale, di una pianta. È proprio intorno a quest’ultima che Karamacate e “l'altro” nascono oltre ogni dualismo.
Consacrazione al mistero
Siamo ritornati al principio. Il cinema assomiglia più alla vita piena, o immateriale, perché opera il rincontro, la consacrazione al mistero. Nel caso di Guerra, fino a ora, la pianta sembra essere un motivo di non casuale integrazione tra il suo primo film, la sua un po’ vacillante opera prima, e quella che costituisce il suo primo capolavoro. L’elemento di trascendenza che nel deserto non può essere altra cosa se non il silenzio, e che è in grado di governare su ogni cosa, da ben prima della vita stessa, ancora prima di essere un embrione, come rivela Karamacata a Evan che sarà il suo sogno, il suo viaggio interiore verso la bella contingenza delle sagome di luce che in fin dei conti siamo, nient’altro che sagome. Voglio ricordare qui Kafka, voglio ricordare l’Odradek di Kafka, le preoccupazioni del padre di famiglia per quell’essere che sembrava avere un senso ma un senso inconcluso, come un rocchetto di filo rotto. Questo siamo. E i film non devono essere nient'altro che questo. La preoccupazione di sopravvivere o meno è una preoccupazione del tutto superflua. L'immortalità è solamente garantita oltre la nostra identità e la nostra stessa vita. Vale a dire che questa vita non è la vera vita. La vita vera è tutto questo, più in qua, ed è quello che Ciro ci racconta, il cinema come sogno.
Non c'è ombra di dubbio sui grandi meriti di Ciro Guerra come cineasta. Basta considerare la sottile concezione e la filigrana dei movimenti della cinepresa intorno alle canoe ne El abrazo de la serpiente per constatare la maestria che ha raggiunto. In questa presentazione abbiamo provato a dimostrare che questa potenza estetica e discorsiva non è improvvisata, ma, al contrario, si tratta di un’elaborazione in corso da molto tempo, che senza dubbio è cominciata con le sue prime esperienze con le sue prime visione del cinema, certamente già dall’infanzia. Ci troviamo di fronte a un autore nel pieno senso della parola, a un creatore che impone una firma alla sua opera, e oltre a una firma personale, di pensiero e di sentimento coerenti, e che, dal mio punto di vista, ha già coronato il suo lavoro con un’opera di rilievo. Nessuno può prevedere quel che verrà dopo, ma possiamo supporre che, come diceva Luis Alberto Álvarez, in una conversazione personale su Bertolucci, “sarà sempre interessante”. Rimane solo da parlare del suo attento lavoro con gli attori, una questione chiave del suo cinema, e del modo in cui il dialogo si costruisce su un vettore a spirale che trasforma i suoi personaggi in una relazione di reciproco arricchimento.
Santiago Andrés Gómez Sánchez
Scrittore, docente, dottore di ricerca in Letteratura presso l'Università di Medellín (Colombia)