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Intervista a Francisco Gedda

Francisco Gedda è regista di documentari, con particolare riferimento alla ricerca e conoscenza dei popoli minoritari e originari in Cile.

Intervista a Francisco Gedda
  • versione italiana

pubblicato il: 25 ottobre 2016

pdf Retrospettiva e intervista a Francisco Gedda

La sua opera “Al Sur del Mundo” (Al Sud del mondo) è stata indicata come materiale di studio dal Ministero per l’Educazione cileno.

Gedda ha raccolto numerosi riconoscimenti internazionali per il lavoro di conservazione della memoria indigena, bene espressa nella serie “Pueblos originarios” (Popoli indigeni).

Gedda è nato a Temuco in Cile ma ha origini italiane da parte del nonno paterno, emigrato ai primi del Novecento, come racconta il regista nell’intervista riportata di seguito.

Francisco Gedda è a Trieste, ospite del XXXI Festival del Cinema latino americano, che gli ha dedicato una Retrospettiva.

Gedda è inoltre Presidente della Giuria della Sezione Contemporanea del XXXI Festival.

 

PROGRAMMA e ORARI dei film di Francisco Gedda:

INTERVISTA A FRANCISCO GEDDA

(A cura dell’Ufficio Stampa del Festival)

 

Quando e per quali motivi è nato il Suo interesse per il cinema e in particolare il Suo lavoro come documentarista?

Negli anni Sessanta, mentre studiavo ingegneria a Valparaíso (Cile), scoprii la mia passione per la poesia e la fotografia. Nel 1968 ero certo che il cinema e la televisione avrebbero dominato la comunicazione del futuro. Lavorai due anni nel campo dell’informatica in Francia, mettendo da parte i soldi per poter studiare cinema; allora accadde un fatto fondamentale: Salvador Allende vinse le elezioni in Cile. Capii subito quanto fosse importante trovarsi in Cile in quel periodo. Vi tornai e partecipai a un laboratorio di Cinema presso la Televisione Nazionale del Cile. Mio fratello Máximo, con il quale condividevo la passione per la poesia e la fotografia, lavorava già lì. Entrambi ci concentrammo subito sul cinema, in quanto mezzo di cambiamento sociale. Fu un periodo di intensa militanza e attività politica, la vocazione per il cinema si trasformò naturalmente e inevitabilmente in vocazione per il documentario. Era un momento storico in cui i fatti reali superavano di molto la finzione e anche coloro che si occupavano di fiction, come Miguel Littín e Pedro Chaskel in “El Chacal de Nahueltoro”, sceglievano di rappresentare la realtà. Il 1971 fu l’anno dei miei primi lavori di ripresa e montaggio di segmenti di documentari per un programma televisivo sul mondo sindacale cileno. Era diretto da mio fratello Máximo Antonio Gedda. Fu la prima serie di documentari realizzata dalla “famiglia” Gedda.

Poi vennero il golpe militare e i giorni terribili che sconvolsero il Cile e il mondo. Questi fatti tragici si portarono via Máximo, detenuto e desaparecido dal 1974. Io andai in esilio e continuai a girare documentari educativi in Venezuela.

C’è una relazione tra le Sue origini italiane (in particolare piemontesi) e il Suo interesse per i Popoli Originari. Anche la Sardegna è una terra di lingua e cultura “minoritarie”. In generale, quali sono le motivazioni che spingono il cinema a occuparsi delle minoranze?

I miei nonni e mio padre venivano dal Piemonte. Il fatto di essere di discendenza italiana è molto legato al mio interesse per i Popoli Originari del Cile. Sono cresciuto in una famiglia italiana a Temuco, la città principale dell’Araucanía. Credo fossimo una minoranza culturale, come i Mapuche, in un mondo dominato e discriminato dal pensiero classista e militare dei coloni cileni, che avevano conquistato da pochi anni l’Araucanía. Gli europei che arrivarono in Cile provenivano dal “Novecento” e avevano imparato con dolore il rispetto per il prossimo. Questo rispetto, di cui la mia famiglia era colma, ci fece simpatizzare con i Mapuches, disprezzati dai cileni di Temuco.

 

Come è nato il suo interesse per i Popoli Originari?

Nel 1982, con la collaborazione dei miei fratelli Manuel e Juan Carlos Gedda, iniziai a girare “Al Sur del Mundo”, una serie di documentari sul territorio e gli abitanti del Cile. Ci rendemmo presto conto che non è possibile comprendere la cultura del Cile senza considerare la profonda mescolanza di razze che permea la società cilena. Inoltre capimmo che per valorizzare questa mescolanza dovevamo studiare e lavorare con i popoli originari, i quali avevano plasmato e “acculturato” il territorio migliaia di anni prima rispetto alla popolazione attuale.

 

In questi ultimi anni, in Europa, qualcuno ha sostenuto che mettere al centro le minoranze potrebbe essere molto pericoloso, perché potrebbe portare a forme di chiusura verso chi non appartiene a una determinata comunità. In America Latina c’è un’interpretazione diversa delle minoranze?

Credo che l’Italia sia un esempio significativo del contrario: le sue culture locali sono state estremamente autonome fino alla fine del XIX secolo. Le identità locali sono così forti che sopra di esse si può costruire un’Italia unica e, tuttavia, essenzialmente multiculturale.

In America Latina il problema è simile. La Spagna conquistò militarmente un mondo ricco di culture, ma queste vennero sottomesse, negate, umiliate e infine occultate. Ciononostante esistono ancora oppure stanno soccombendo al forte impatto del meticciato, imposto per cent’anni dalla corona spagnola. Il Cile, in particolare, ha un’anima divisa in due: i meticci che rinnegarono la madre indigena per ottenere un potere simile a quello del padre spagnolo e i meticci che invece si identificarono con la madre e con la loro terra. Questa tragedia attraversa l’anima della nazione e bisogna vivere in Cile per percepire il forte classismo della cultura dominante nazionale.

È una tragedia che si amplia, poiché non è cosciente dell’idiosincrasia cilena, fortemente plasmata dalla cosmovisione indigena. La mia decisione di realizzare una serie di documentari sui popoli originari del Cile serve a costruire ponti che contribuiscano all’accettazione della nostra identità multiculturale.

 

Tra le sue produzioni ce ne sono alcune che lei considera particolarmente significative?

Per me un documentario-simbolo è “Una Piccola Italia en Tierras Araucanas”, che rappresenta l’identità di Capitán Pastene, un piccolo villaggio costruito nei primi decenni del XX secolo da immigrati emiliano-romagnoli nel cuore dell’Araucania. È un omaggio alla storia parallela della mia famiglia. Simbolico è anche “Las Alturas Vivas de los Andes”, che parla della ricerca poetica degli Aymara nel nord del Cile. È stato premiato con la Targa d’Oro nel Festival di Sondrio. Infine, “Mineros del Carbón”, sui lavoratori simbolo dello sfruttamento operaio sotterraneo durante il XIX secolo in Cile. Ha ricevuto il Premio alla Scrittura Cinematografica nel Festival del Cinema Scientifico a Parigi. Spero potremo vedere questi film a Trieste nell’anno 2017.

 

Che idea ha dell’Italia e del cinema italiano di ieri e di oggi?

Non sono molto informato circa il cinema italiano di oggi. Le transnazionali anglosassoni della distribuzione impediscono al cinema contemporaneo europeo di arrivare in Cile. Ma il cinema storico italiano mi rappresenta profondamente. Dal Neorealismo, basato sulla dura realtà del dopoguerra, fino ai più grandi maestri come Fellini, Antonioni, Scola, ecc. Secondo me, questo è il miglior tipo di cinema, per il suo attaccamento alla realtà, la sua umanità e il suo enorme contenuto di rispetto per il prossimo.

 

C’è qualche film italiano o qualche regista italiano, di ieri o/e di oggi, che le sembra interessante e perché?

“Una giornata particolare” e “La famiglia” di Ettore Scola. Non posso descrivere a parole la loro ricchezza visiva, le sfaccettature dei loro personaggi e dei loro contenuti storico-sociali. Per me sono opere insuperabili.

 

Come sono oggi la situazione culturale e lo stato di salute del cinema in Cile?

Il cinema cileno di oggi, grazie all’appoggio permanente da più di 20 anni da parte degli enti per lo sviluppo statali, è in continua crescita. Dai primi film, nei quali si sentiva la necessità di analizzare e ricordare la dittatura, siamo passati a opere più complete che parlano delle tensioni di una società classista che cerca di aprirsi a valori più democratici.

 

Il XXXI Festival del Cinema Latino Americano di Trieste, che è un evento nazionale molto importante, Le dedica una bella retrospettiva. Cosa ne pensa?

Venire al Festival di Trieste e in particolare a una retrospettiva della mia produzione documentaristica ha un sapore speciale. È in qualche modo un ritorno a casa, per i miei nonni e i miei genitori che non vi tornarono più. In loro ho sempre percepito un velo di nostalgia per l’amata Italia, che dovettero lasciare a causa delle difficoltà del Novecento. Io sono il frutto italo-cileno del loro sacrificio seminato in terre americane.

 

Conosceva già Trieste?

Non conosco Trieste e sono davvero felice di poter conoscere questa città. Lo farò in questi giorni. I suoi abitanti sembrano già belli nella mia immaginazione.